(dal libro di Francesco Napoli, Novecento Prossimo Venturo, Conversazioni critiche sulla Poesia, Editoriale Jaca Book Spa, Milano, 2005)

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MILO DE ANGELIS
(Milano, 1951)

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Giorgio Barberi Squarotti nel 1975, introducendo sullʼAlmanacco
dello Specchio un gruppo di sue poesie, parla di un «comporre a scat-
ti» e di «impotenza della parola», in quale senso?
«Comporre a scatti» e per me inevitabile, fa parte del mio essere.
Quando scrivo giungono frasi da zone lontane, giungono a spezzo-
ni, a brandelli, a segmenti, ognuna per suo conto, ognuna solitaria.
Non cʼe, fra loro, armonia, filamento, quella bella falcata rotonda
che unisce e crea il giusto ritmo del fondista: non cʼe. Ci sono inve-
ce bagliori, allarmi, presagi. La verita e che ogni frase giunge da un
luogo suo, piu o meno distante dallʼattimo presente, e cosi porta un
peso, un tono, una voce di volta in volta differente, inconciliabile
con le altre. Cosi, quando scrivo, ne scelgo alcune, quelle consan-
guinee, quelle che hanno una nota in comune, le metto insieme, le
faccio muovere in una sintassi, e si forma un tema. Si, prima le frasi
e poi il tema, la dimensione emotiva: insomma, il sentimento. E que-
sto sentimento, quando comincia a prendere forma, convoca a se al-
tre frasi dello stesso tenore. Questo avviene, in me, scrivendo poesie.
Avverte dunque anche un certo senso di impotenza, il lavoro del poeta
e un lavoro infinito e disperato.
Un lavoro incessante che nel mio caso si traduce anche in questo
demone della variante, in questo continuo e a volte esasperato lavo-
ro di messa a fuoco. Non per sperimentare nuove vie, ma casomai
per udire meglio la voce che aveva dettato la parola. Come se lʼo-
recchio avesse bisogno di infinite prove di avvicinamento per poter
essere fedele a quella prima dizione.
Sempre nel 1975 entra nel Pubblico della poesia, in una sezione con
Cucchi, Doplicher, Lumelli, Manacorda, Scalise. Come ricorda quel-
lʼesperienza?
Ricordo con emozione quellʼesperienza: e stata la mia prima uscita
in unʼantologia importante come quella di Berardinelli e Cordelli,
che allora sembravano, e non e stato cosi per tante ragioni, i «no-
stri» critici, quelli destinati ad accompagnare la nostra generazione
per un lungo tragitto. Per quanto concerne i miei compagni di
viaggio in quella sezione del Pubblico della poesia, almeno due si
sono rivelati presenze durature e, direi, fondamentali: Angelo
Lumelli, con la sua sapienza filosofica e il fascino della sua mente
sistematica; e Maurizio Cucchi per i suoi splendidi libri che, a par-
tire dallʼanno successivo, hanno lasciato unʼimpronta fondamenta-
le nella poesia italiana. Ma poi cʼe Conte che e stato per me un tra-
mite per la poesia, come un ponte dʼingresso, un medium attraver-
so cui si aprivano interi capitoli della nostra poesia che mi erano
ignoti. More...
E quali erano i maestri e le letture di quegli anni?
Sono gli anni di Fortini e Bigongiari. Il primo severo e giuridico, da
tribunale della poesia, ogni volta che si andava li in via Legnano 28.
Invece Bigongiari era un grande maestro accogliente e sorridente,
capace di valorizzare i primi modesti tentativi. Avevo bisogno di
entrambi. E vorrei nominare anche Michelstaedter, Campana, Pa-
vese. Cʼe poi uno scrittore, non un poeta ne un narratore, che ha
avuto un grande significato nella mia formazione, nel mio lessico,
nel mio modo di formulare la frase: Maurice Blanchot.
Questi i maestri. E le letture?
Per me lʼermetismo, Gatto e Bigongiari, poi Luzi da maestro auten-
tico. E non tanto nel senso del rapporto e del contatto, per quel suo
carattere riservato e schivo che rendeva difficile la parola amiche-
vole. Pero sul piano dei testi lʼinfluenza e stata decisiva. Poi Mon-
tale piu che mai, quello delle Occasioni e della Bufera. Poi molta
poesia francese, da Char a Bonnefoy a Jacottet, allora non ancora
tradotto; poi Seferis e Gottfried Benn tra i tedeschi. Per Benn cʼe
stato come un amore a prima vista, un senso di riconoscimento
istintivo in quel mondo e in quel peso della parola gelida e solenne
che sa creare. In ambito spagnolo, poi, il solo Aleixandre e stato sta-
bile tra le mie letture.
E la presenza nella Parola innamorata, lʼaltra antologia di quegli anni
cosi fervidi?
Con La parola innamorata entriamo nel cuore della mia biografia,
da una parte, e della storia pubblica di quegli anni dallʼaltra. Anni
controversi: pieni di slancio e di fervore, certo, ma anche di luoghi
comuni, parole dʼordine, formule dottrinarie. La semiologia e il
marxismo, padroni indiscussi della scena: la semiologia – di cui fu
appendice la Neoavanguardia – era un tentativo di prolungare
allʼinfinito il viaggio per eludere la nostalgia del porto; il marxismo
era un modo di escludere dalla poesia lʼombra, lʼassoluto, la follia,
la solitudine. La parola innamorata nacque dallʼimpossibilita di resi-
stere su quella scena, esattamente come lʼesperienza di «Niebo» che
le e contemporanea.
Fine anni Settanta: gli incontri del Turati e, soprattutto, «Niebo».
Cosa rappresento allora, e come la vede oggi, quellʼesperienza cosi
importante?
«Niebo» nasce come alterita estranea e certezza di avere unʼidea
romantica ed assoluta della poesia, come con la Parola innamorata.
In ambedue i casi abbiamo avvertito che la poesia ha unʼesigenza
centrale di durata, di permanenza, di rapporto con la tradizione,
con i maestri, con i vivi e con i morti, con la loro comunione. Cosi
e nata quellʼesperienza breve e ardente, quei lunedi sera di via
Rosales 9 in cui abbiamo visto sfilare davanti ai nostri occhi poeti di
tutta Italia, noti e meno noti, giovani e anziani, insieme a una miria-
de di ragazzi e di ragazze che volevano dire la loro sulla poesia. E
tanto piu grande era il ventaglio degli incontri quanto piu serrato
rimaneva il nucleo di «Niebo», fedele a un patto giurato, a unʼidea
assoluta e romantica della scrittura, ai suoi maestri ispiratori:
Holderlin, Trakl, Rimbaud, Aleixandre. Assoluta ma anche consa-
pevole che lʼassoluto puo vivere soltanto nel palpito vivo della lin-
gua, nel suo respiro contemporaneo.
Milano compare piu volte nella sua poesia. Quale rapporto con questa
citta per una poesia come la sua che e tuttʼaltro che lombarda?
Milano consente di non essere lombardi, apre a mille visioni, e poi
gia quando Anceschi conio il termine di «linea lombarda» nel
Cinquanta sembrava non corrispondere alla ricchezza della poesia
che sʼandava facendo a Milano nel dopoguerra, figuriamoci adesso.
Cosa cʼe di lombardo in Mussapi o Valduga nel senso della poesia
morale, civile, della concretezza. Anche perche a Milano la linea
lombarda si e sempre manifestata doppia: cʼe stato Parini ma anche
Tessa o Testori o un Rebora. Una citta poetica. Milano e un luogo
di rigore e sottrazione, affine alla mia idea di poesia. E un luogo di
minime confidenze e intimismi, e anche questo mi piace. Cʼe poi a
Milano una cultura delle periferie ignota a ogni altra citta italiana:
impensabile, Milano, ridotta al suo centro storico o anche ai suoi
confini comunali. Anche il quartiere in cui siamo adesso mi ispira,
la Bovisasca, con il suo eterno primo novecento di fabbriche e muri,
con quellʼatmosfera alla Sironi.
Come giunse allora alla pubblicazione di Somiglianze?
Somiglianze e stato scritto dal 1970 al 1975 negli anni del-
lʼUniversita. Un lungo lavoro di varianti e tentativi, di incertezze ed
entusiasmi, insieme agli amici poeti di allora, ossia Angelo Lumelli,
Michelangelo Coviello, Franco Buffoni, prodighi di consigli al piu
giovane del gruppo. Sul piano editoriale, fu Giovanni Raboni che
decise di pubblicarlo, con mia grande gioia, nella collana della Fe-
nice di Guanda, che riprendeva a pubblicare poesia dopo un lungo
silenzio. Un libro drammatico, dove tentavo di dire una parola che
rivelasse come mi chiamavo. Era un libro alla ricerca di unʼidentita,
di un ragazzo smarrito tra tante forze e tanti richiami. Un libro dello
spaesamento insieme allʼesattezza.

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Nel 1976 esce Somiglianze, considerato tuttora come un testo di rife-
rimento per unʼintera generazione che andava prendendo coscienza di
se. Avvertiva dietro di lei crescere qualcosa?
Erano gli anni Settanta, non dimentichiamolo, erano gli anni in cui
dominava il ricatto politico (falsamente politico) dello schierarsi
dalla parte giusta e del porre la propria scrittura al servizio della sto-
ria immediata. A tutto questo si contrapponeva, con la stessa po-
verta di visione, una specie di New Age con i suoi miti dellʼIndia,
del nomadismo, e delle energie armoniche. Cʼera dunque uno spa-
zio, anzi un abisso, che stava li in attesa di parola e che chiedeva di
dare nome a cio che e interiore, drammatico, notturno. Li si innesta
Somiglianze, nello stesso luogo in cui prende forma lʼesigenza di una
generazione.
Il volume presenta, tra i tanti aspetti, una scrittura anche drammati-
ca, in senso letterale, tanto da apparire talvolta «teatrale».
Somiglianze e un libro fitto di dialoghi, voci, invocazioni. Un uomo
e una donna tentano un contatto, lo vogliono ardentemente, ma la
loro parola e incompleta, spezzata, impregnata di silenzio, come
certi quadri di Edward Hopper. Il parlato di Somiglianze ha una sua
ascendenza luziana (in quegli anni usciva il libro di Luzi che piu mi
e caro, Su fondamenti invisibili) ma trasportata nel livido hinterland
milanese, con una nota di asprezza e nichilismo, con una parola
adolescenziale, fortemente innamorata: protesa verso lʼaltro, eppu-
re inquieta, incerta, incontentabile, carica di allarme e di presagio,
desiderosa di unione e di interezza, ma sempre ferita, sanguinante,
drammatica, come veniva da lei suggerito. E certi dialoghi di So-
miglianze, certi interni desolati in cui la parola incespica e chiede
soccorso, certi squarci di periferia in cui il personaggio maschile e
quello femminile si cercano brancolando nella foschia, tutto questo
sembra pronto per una rappresentazione teatrale. O, ancora meglio,
un film, perche piu del teatro amo il cinema, luogo di solitari o di
grandi sale anonime, luogo novecentesco per eccellenza.
Leggo da Somiglianze e precisamente da Lʼidea centrale: «E venuta
in mente (ma per caso, per lʼodore/ di alcool e le bende)/ questo darsi
da fare premuroso/ nonostante./ E ancora, davanti a tutti, si sceglie-
va/ tra le azioni e il loro senso». Un commento.
Si, cʼe una situazione dʼospedale – o anche meno grave, di ferita
domestica – e scatta un «darsi da fare», nonostante ogni bilancio
negativo sul significato della vita, questo scegliere il vortice dei gesti
rispetto al vuoto di valore che abbiamo loro assegnato, in una sorta
di tradimento delle proprie convinzioni, fino alla perdita di se e del
proprio nucleo di pensiero, della propria idea centrale, che ne esce
frantumata, tanto che la poesia finisce con questi versi: «Se ti toglia-
mo cio che non e tuo/ non ti rimane niente». E una delle prime poe-
sie che ho scritto, su un abbozzo che risaliva ai tempi del liceo, e di
quei tempi mantiene il tono: forse un poʼ dimostrativo ma con degli
strappi, dei vuoti di sillogismo in cui lʼimmagine puo immergersi.

Ha sempre sostenuto la sua azione poetica con una forte azione criti-
ca, ma meglio dire di riflessione teorica sul fare poesia. Come sʼinter-
secano le due attivita?
La riflessione teorica puo allestire il battello, farlo solido e ben equi-
paggiato. Ma poi la navigazione poetica, con le sue tempeste e
avventure, e ben altra cosa, spesso raggiunge la sua meta tuffando-
si a nuoto e con lʼaiuto di Dio. Piu che di «riflessione teorica», un
poeta ha bisogno di una originale visione del mondo e delle doti sti-
listiche per realizzarla, ha bisogno di leggere altri poeti e di parlare
con loro, ha bisogno di essere silenzioso e di far pesare questo silen-
zio sulla sua parola. E ha bisogno infine che la poesia sia lʼunica
forma possibile, sia un passaggio obbligato. Il verso spazza via, tra-
volge la compattezza della teoria, crea voragini e buchi, vertigini
dentro questo tessuto della ideazione e punta allʼindeducibile. Pero
ci devʼessere stata la forza concettuale e teorica cosi come ci devo-
no essere stati tanti libri letti per poi liberarsene.
E, sempre a proposito di relazioni, avverte unʼinfluenza tra la sua poe-
sia e lʼattivita di traduttore?
Gia lo scrivere versi e per me una specie di traduzione, di rito tra-
duttivo. Mi avvicino alla scrivania con mille fogli, appunti, pezzi di
carta, pagine sottolineate, elenchi di parole e di espressioni. Poi, in
uno stato di energia accresciuta, di battito mentale accelerato, di
tensione di tutto lʼessere, li sposto da sinistra a destra, li tra-duco da
una parte allʼaltra della scrivania e nello stesso tempo li raduno in
un significato, in un primo provvisorio significato. E cosi, per ore,
quando le forze mi sostengono, in un lavoro di transito dallo stato
informe dei frammenti a quello strutturato del testo.
Anche nella traduzione vera e propria si tratta di portare uno scrit-
tore da una riva allʼaltra del fiume temporale, di fare in modo che
possa vivere nella nuova epoca, mostrandone suoni, luci, cadenze,
permettendogli di respirare in unʼaltra civilta, mutandone una parte
perche unʼaltra sopravviva: si, mutandolo perche possa vivere altro-
ve. Dʼaltra parte quando si traduce e perche si coglie nellʼopera una
domanda di durata, la richiesta di non rimanere confinato nel suo
tempo, di esistere tra noi. Gli autori che ho tradotto – in quanto fra-
telli, Lucrezio, Virgilio, Baudelaire, lʼAntologia Palatina, i tragici
greci – mi hanno fatto questa domanda, sapendo che sarebbe stata
accolta, avendo io con loro un debito, avendomi loro nutrito pro-
fondamente.
Ai tempi di «Niebo» ero attratto dalla tragedia greca e traducevo
solo tragici, questa processione monotona e insistente del tetrame-
tro trocaico. Adesso altre zone della Grecia mi sono aperte, proprio
con la traduzione dellʼAntologia Palatina: il sentimento del guizzo,
del brillio di luce, delle vesti leggere, delle coppe che si alzano nel
brindisi: tutto un altro sfavillio, chiaroscuri, carica seduttiva che
nulla ha a che fare con la solennita del verso tragico.

Nel tradurre Lucrezio lei sembra avvertire vicina non solo la sua poe-
sia ma anche la sua figura umana.
Si, vicino a questa sfasatura di Lucrezio rispetto il suo tempo. Come
se ci fosse la sua voce singola e poi unʼaltra voce fuori campo, una
voce che e anteriore, della tradizione e dellʼobbedienza. Mi sento
vicino in unʼidea del sublime, del caricare tutto di trasfigurazione.
Un realismo che diventa unʼepopea, una cosmogonia, che parte dal
dettaglio piu concreto e lo porta nel vortice dellʼesistenza e della vita.
Il suo secondo libro, Millimetri, arriva a distanza di sette anni, sara
anche per lʼavvertita, e piu volte scritta, necessita che non si deve mai
riscrivere il primo, che ogni libro deve esaurire la sua spinta e quindi
sia necessario anche un distacco temporale?
Millimetri e un libro a se, scritto in un periodo buio, in cui stavo
perdendo il contatto con il mondo e con me stesso. Somiglianze era
un libro trepidante di palpito, di emozione, di richiesta dʼascolto, di
indugio, di seduzione, seppure in un modo segreto. In Millimetri
avviene qualcosʼaltro: la parola si restringe in una specie di ossatu-
ra scheletrica, senza piu carne. Tutto e geometria, e segmento, e
bianco e nero, teso. Piu di ogni altro e un libro fatto e rifatto.
Riscrivevo per tante volte una stessa poesia che poi magari ritorna-
va ad essere quella di partenza, in una sorta di insonnia perpetua.
E il mio libro meno biografico, perche non arriva nemmeno alla psi-
cologia, al dialogo, ai personaggi o ai luoghi abitabili. Rimane li, in
una zona di tensioni e attriti che precede ogni rapporto umano, in
una specie di bianco e nero appuntito, secco, millimetrato, appun-
to, una specie di lama verticale a cui e sfuggita la visione dʼinsieme.
Leggo ora per un suo commento la chiusa di La goccia pronta per il
mappamondo: «In noi giungera lʼuniverso,/ quel silenzio frontale
dove eravamo/ gia stati», che tra lʼaltro forma il giusto titolo per una
sua autoantologia.
Si, e vero che in Millimetri, in un libro cosi smarrito, emergono a
tratti versi dʼimprovvisa certezza come questi, in cui parla il deside-
rio di unʼunita perduta, di un universo non piu in frantumi che cer-
tamente avevamo gia conosciuto.
Ancora dei versi da Millimetri e precisamente la chiusa di Non puoi
tacere: «E io parlo della terra/ a una candela;/ di te e di noi, di noi
soli creati», degli uomini e del mondo dunque?
Sono versi che risuonano molto forte in me, con quellʼaccento pog-
giato sul «creati» finale. Si, degli uomini. Ma visti da un luogo soli-
tario, da un asceta che parla di fronte alla sua candela. Cʼe una sorta
di disperata saggezza, di solitudine totale e irrimediabile, dove lo
sforzo di interloquire, dialogare, con la comunita del mondo sem-
bra congelato in un punto. Poi il fremito e lʼesigenza di salvezza fa
si che la parola mondo e luce vengano pronunciate quasi per farle
accadere chissa quando, forse in un tempo in cui Dio deve interve-
nire. Questo richiamo a una figura superiore cela un sentimento del divino che forse nel tempo e cambiato.
Adesso Dio puo fare solo piccole azioni, negli anni trascorsi ha gia
dato oltre misura e rimangono solo delle messe a punto. Tutto e gia
avvenuto, la salvezza e stata intravista.
A volte, poi, parlo e scrivo come un sopravvissuto che ricorda quasi
su uno schermo, come se appartenesse a unʼaltra parte di se quanto
e avvenuto negli anni.
E perche Millimetri?
E uno dei miei titoli che piu conserverei: il titolo della stringatezza,
della parola scarnificata, della parola perimetrata in una sorta di
assedio che la faceva diventare sempre piu stretta.
Poi, due anni dopo, matura il suo terzo libro, Terra del viso, con ele-
menti di continuita con le precedenti prove, come una forte concen-
trazione espressiva, ma anche con innovative aperture quasi di tenore
narrativo, come nella corona di Memoria, e cito la chiusa di Memoria
III: «padre, cupo padre del cielo, non/ posso vederti, ti cerco con lʼal-
tlante/ e con questa radio, giro le manopole/ con le mani e i denti, do
colpi// se oggi taci ancora, accettando/ un solo colore per il regno degli
amici,/ ultima, angelicata fame».
La velocita delle associazioni, con Terra del viso, e aumentata in
modo cruento. Senza pero giungere al surrealismo, ossia allʼarbitrio,
peccato mortale della poesia. Ogni immagine, qui, vuole essere la
piu certa e la piu nuova, la piu antica e la piu inaudita, quella che
doveva esserci e insieme quella che viene dallʼaltro mondo: equili-
brio instabile e sempre incertissimo tra traduzione e invenzione, tra
necessita e scoperta, tra eredita e avventura. Cʼe poi una sezione piu

semplice, Per quali ragazzi?, e alcune poesie nettamente biografiche,
dominate dalla figura del padre, dai suoi racconti di guerra, morte
e salvezza, dalla campagna di Russia, dalla donna che lo salvo,
Oxana, e dalla sua ultima, angelicata fame: ne parlo nel trittico Me-
moria, in bilico tra il mar Baltico e Milano, tra la neve russa e la mia
nascita.
La figura paterna emerge con forza gia da questa raccolta, stagliando-
si con nettezza nella successiva Distante un padre.
Il padre e il no, la legge, la prova. In questo senso non ho avuto
padre. Non ho avuto questa entita legata alla storia, allʼingresso in
cio che e pubblico. Mio padre era una creatura lieve e smarrita,
luminosa e assente, come certi uomini della Belle Epoque presi da
un sogno estetico, con i loro pantaloni bianchi, i cavalli, le belle
donne, il gioco e i Casino della Costa Azzurra. Semplicemente, non
cʼera. Non e un rimprovero, io lʼamavo cosi, sognante e impalpabi-
le. Ma non cʼera. E allora lo cercavo in altri uomini, in altri maestri.
Fortini e Bigongiari in qualche modo sono stati anche dei padri
sostitutivi. Ho avuto invece una madre che ha assunto un ruolo
paterno, di severita, di rigore, addirittura spartano. Il mio era un
padre un poʼ alla Luigi Cucchi, un padre cosi: con una sua vita soli-
taria, una sua passione estetica che ne faceva anche una sorta di fra-
tello maggiore. Ma essenzialmente continuava a mancare. Distante
un padre e il libro di questa mancanza. Il titolo vuole indicare un
complemento di distanza, come si dice «distante un metro o un chi-
lometro». Io distavo un padre dalla completezza, distavo un padre
dallʼunione, dalla gioia, dalla verita. Era introvabile e tremendo,
questo padre mancato. Forse non e un caso che lʼanno dopo sono
diventato io stesso padre.
Uno dei suoi lettori piu attenti, Eraldo Affinati, afferma in un artico-
lo su «Nuovi Argomenti» per Distante un padre: «La sua poesia esce
dunque dalle strettoie dellʼinterpretazione logica non per liberarsi,
non per disertare, ma per arruolarsi e arrendersi, per rispondere ad un
imperativo categorico ineludibile, irrinunciabile».
In generale mi sento lontano dal termine «liberazione». Mi sembra
di vivere in unʼepoca di liberta assoluta, sfrenata, tremenda, in una
presenza senza appoggio e senza genesi. Chi scrive assume su di se
il peso dei secoli, chiama in causa la tradizione, gli antenati, la vita
stessa. Ce lo insegna la tragedia greca, con la sua forza inconfuta-
bile.
Era un magma in pieno movimento quello degli anni Settanta.
Si, era un magma, un vortice di gesti, progetti, iniziative. Tutto si
svolgeva al presente, in attesa del futuro, tutto avveniva nellʼ«ades-
so» illuminato dallʼutopia della vita felice. Era come se mancasse la
terza dimensione del tempo, era come se i morti non dovessero par-
lare. E allora io parlavo ai morti, ancora di piu, convocavo le ombre,
le intrecciavo allo scorrere attuale delle ore e dei corpi. Io e tutti
quelli che sentivano il peso di questa omissione, lʼingiustizia di un
tempo reso cronaca, senza piu la sua tensione allʼassoluto, a cio che
unisce il qui e lʼaltrove, la luce alla notte, il tangibile al mistero.
E la scelta del dialetto materno in Distante un padre?
La sezione Terre gialle di Distante un padre in dialetto monferrino e
una delle rarissime uscite dalla citta – da tutte le citta incluse in
Milano. Ed e al tempo stesso lʼoccasione per una semplicita che
altrimenti non avrei saputo raggiungere, per una parola fiabesca,
oltretutto in un dialetto privo di tradizione letteraria, che si conse-
gnava nudo alla possibilita del canto. Mi sono autorizzato, attraver-
so la lingua materna, a introdurre temi e suoni sospesi nel tempo,
leggende elementari e commoventi, troppo elementari e troppo
commoventi per il mio consueto pensiero poetico. Ed e anche, quel-
la sezione dialettale, uno dei rari momenti in cui appare, antica e
infantile, la rima.
Lʼadesione al reale, allʼesistere per dir meglio, in questa raccolta sem-
bra palesarsi con maggior intensita, una svolta nel suo fare poesia?
Distante un padre e il piu vario dei miei libri. Ci sono molte vie, toni,
tensioni. Cʼe la sezione in dialetto, la piu distesa, ma ci sono altre
zone di cronaca allucinata, con forte velocita associativa, con una
parola che cerca legami tra mondi lontani, che si carica di pressio-
ne e di imminenza, quasi fosse sulla soglia di una rivelazione, quasi
fosse essa stessa una rivelazione imminente. Cʼe poi la presenza del-
lʼinfanzia, del tempo perduto. O meglio: e un tempo in perdita, che
si avvinghia al presente, respira nel presente, lo fa suo, lo stringe a
se, lo trasfigura e lo sfigura, con un senso di allarme e di minaccia,
con una violenza che non permetteva di andare oltre.
A proposito di riflessione sul poiein: scrive in La chiarezza di ogni
tragedia, nel volume La poesia ritrovata: «Lʼopera poetica (…) e sto-
rica in due sensi tra di loro contrastanti: primo perche appartiene a un
anno del calendario e della lingua in mutamento; secondo, perche
mirando a trascendere la cronaca, per esistere deve incarnarsi nel
dibattito pulsante di questʼultima». Si condivide ancora?
Condivido ancora. La poesia deve mantenere vivi – nel loro contat-
to e nel loro contrasto – i due mondi della cronologia e dellʼeterno,
della contingenza e della meta. Guai se abitasse un cielo senza sto-
ria: diventerebbe neoclassica. E guai allo stesso modo se abitasse un
calendario che non e sfiorato dallʼassoluto: diventerebbe giornali-
smo in versi, attualita senza il respiro del tempo. Questi due mo-
menti, per la verita, non dovrebbero nemmeno chiamarsi poli,
dovrebbero fondersi in unʼunica voce, che li fa risuonare entrambi,
indistinguibili.
Arriva dieci anni dopo, nel 1999, Biografia sommaria, una ricapito-
lazione in versi della propria esistenza poetica, dal pedale fortemente
impresso sul quotidiano, alla Montale se si vuole – «La Doxa mi chie-
de per chi votero…» – e con una eco della Vita in versi di Giudici.
Un titolo particolarmente amato quello di Giudici. Forse ha in
comune con Biografia sommaria gli improvvisi squarci, le presenze
di personaggi. Nella raccolta, poi, cʼe molto silenzio e molti eventi:
una moglie, un figlio, nuove case, nuovi lavori, persino un nuovo
corpo, diverso da quello elettrico e stralunato di prima. Con alcune
zone dellʼessere mi sono riconciliato, con altre la ferita resta aperta.
Cʼe una parte del libro – che raccoglie brani e situazioni destinate a
un romanzo e che sʼintitola appunto Capitoli del romanzo – dove
emerge una voce piu lenta e distesa, per me nuova e credo irripeti-
bile. Vi appaiono figure di grandi amici sepolti nel tempo, compa-
gni di scuola, di strada, di squadra, donne con cui ho fatto un breve
cammino, atlete di un periodo sportivo e adolescente. Insomma, un
colloquio con le ombre, ancora e sempre. Ma le ombre non sono
solo le persone scomparse. Sono anche le persone che abbiamo sfio-
rato in un anno della nostra vita e poi abbiamo visto svanire, disse-
minate in altre stagioni, alla maniera di Giudici se si vuole. Oppure
le ombre possono entrare nella persona che abbiamo di fronte e che
amiamo, quando la sentiamo portata via, risucchiata in un luogo che
appartiene solo a lei, in un tempo misterioso che non ci ospita.
Con Biografia sommaria ancora la sua citta, vista ora con unʼottica
meno disperata e disperante: «Entriamo adesso nellʼultima giornata,
nella farmacia/ dove il suo viso bianco e senza pace risponde al salu-
to/ del metronotte: viso assetato, non posso valicarlo,/ e lo stesso che
una volta chiamai amore, qui/ nella nebbia della Comasina».
Milano ritorna di forza in questo libro, con le sue periferie, edicole,
chioschi, palestre, oratori e cinema abbandonati. E fatta di tutte le
citta che ho abitato e ne porta luci e riflessi. Nel poemetto iniziale e
persino circondata da un oceano. Dʼaltronde Milano ha tante anime
e tante gradazioni dellʼanima: cʼe la Milano illuminista, quella della
Linea lombarda, quella metafisica di Rebora, quella lancinante di
Testori, quella onirica di Tessa e di Loi. La Milano di Biografia som-
maria e, come sempre nella mia poesia, un paesaggio che entra nei
dialoghi e ne costituisce il contrappunto, impregnandone le parole
con il suo grigio potente, con i suoi pomeriggi piovosi e intermina-
bili: piu che una citta riconoscibile, e un luogo di tensioni, silenzi,
analogie, labbra che cercano una parola, in mezzo ai camion, alle
cabine telefoniche o ai depositi dei tram. Ogni tanto appare una via,
un quartiere preciso, che viene nominato, come un cartello segnale-
tico. Cʼe, a proposito, una bella frase di Eraldo Affinati nel libro
sulla mia poesia Patto giurato: «I nomi delle strade, come cartelli,
diventano soggetti essi stessi, guardano i personaggi, scrutano senza
essere visti da loro, come testimoni assorti e muti».
Lʼuso della rima, sottolineato anche da alcuni interventi critici, piu
che «in passato – come scrive Ramat a proposito – incidono con il loro
magnetismo»?
Gia, la rima. Era apparsa in Terra del viso e Distante un padre, con-
finata pero nelle due sezioni legate alla leggenda. Qui assume tanti
volti: puo essere infantile nelle poesie in cui si affaccia la tenerezza,
puo essere liturgica nelle poesie di tono religioso, oppure puo spez-
zare lʼandamento narrativo delle poesie piu lunghe, creando zone di
sospensione musicale, di richiamo a piu voci, come note che si inse-
guono per intrecciare vicende.
Lʼattacco di Cartina muta, per un altro commento: «Entriamo adesso
nellʼultima giornata, nella farmacia/ dove il suo viso bianco e senza
pace non risponde al saluto/ del metronotte: viso assetato, non posso
valicarlo,/ e lo stesso che una volta chiamai amore, qui/ nella nebbia
della Comasina». Cʼe unʼatmosfera come ferma e immobilizzata, para-
lizzata come certe immagini cinematografiche.
Si, potrebbe essere una sequenza di Antonioni o di Fuoco fatuo di
Louis Malle, di un film in bianco e nero legato al tema di cio che
non si comunica. Questa poesia mi e particolarmente cara: narra di
una passeggiata notturna, reale e immaginata, con Nadia Campana,
la giovane poetessa morta suicida nel 1985. Ed e vero, come lei dice,
che cʼe unʼatmosfera urbana di gelo e tensione (come i suoi occhi
«gelati, intelligenti e inconsolabili»), un silenzio carico di segnali e
premonizioni, un silenzio che ci assediava e che si scioglie solo nella
supplica finale, davanti al suo portone di via Vallazze.
Biografia sommaria chiude il suo Novecento?
Cʼe una parte di me che e legata al Novecento in modo essenziale e
che dunque non puo chiuderlo. E intendo per Novecento il secolo
in cui la poesia si stacca dalla comunita, entra in un luogo singola-
re, esprime la solitudine senza rimedio di chi scrive. Cʼe poi unʼal-
tra parte di me che e in dissidio con questo destino di isolato e va in
altri luoghi, sente che quella ferita esiste, ma sente i richiami della
luce e dellʼamore, a volte e persino felice. Vedremo quale delle due
varchera il confino del millennio.

A chiusura dʼintervista, un verso dʼaltri a cui e particolarmente legato
e un suo verso che ricorda con particolare forza.
«Solo abbiamo un incontro/ con singole parole», di Paul Celan.
«il semprevivo di ogni niente», da Biografia sommaria.